Streetwear 11

L’intreccio tra il mondo della moda e quello del rap e della strada è passato da trend innovativo a realtà consolidata; non più una situazione temporanea e ciclica quanto piuttosto una verità ormai assodata che si può scegliere di fare propria oppure no.

Se da una parte, infatti, le ultime sfilate uomo sembrano aver decretato la fine dello streetwear a favore di un’eleganza più sartoriale, sfoggiata anche recentemente dai giovanissimi artisti sul palcoscenico di Sanremo, dall’altra Louis Vuitton ha nominato Pharrell Williams come nuovo direttore creativo, pronto a portare avanti l’eredità di Virgil Abloh, diventato un’icona grazie al suo mix di lusso e streetwear. Anche in questo caso, dunque, non esiste una verità assoluta, ma una realtà ricca di sfaccettature e caratteristiche che raccontano storie diverse.

Osservare le ragioni che si nascondono dietro a questi intrecci e vederne gli effetti è ciò che più ci interessa analizzare. Se in passato i brand del lusso preferivano non essere associati ai rapper e a quello che rappresentavano, con il tempo hanno iniziato a corteggiarli, sfruttandone la popolarità e il forte impatto sui più giovani, innescando il meccanismo che ha portato all’unione dei due mondi. Dalle passerelle alla strada e dalla strada alle passerelle, uno scambio “interessato” da entrambe le parti in una dinamica apparentemente win win. Da qui è partita la rivoluzione che ha visto la moda “scendere in strada” e la strada diventare sempre più fashionable. Inseguendo le logiche di mercato, le aziende del settore hanno risposto al loro bisogno di avvicinarsi alla Gen Z, a quella fetta di giovani difficilmente raggiungibile con capi esclusivi e fuori budget. Allo stesso tempo lo streetwear non è certo stato a guardare e ha intravisto la concreta opportunità di esplorare e conquistare un mondo lontano ed aspirazionale, considerato fino a quel momento irraggiungibile. Fin qui un rapporto tra pari che avrebbe potuto funzionare senza scossoni, in una sorta di reciproco do ut des che sembrava mettere tutti d’accordo. Ma è proprio così? Siamo davvero di fronte ad un meccanismo perfetto e così scontato? E soprattutto, aspetto assai interessante, su quali asset reputazionali impatta oggi e ha impattato in passato questa osmosi? Stiamo parlando di product reputation, di brand reputation, di personal reputation o addirittura di corporate reputation?  

La verità è che non è sempre facile gestire questo tipo di partnership più o meno industriali che possono rivelarsi complesse soprattutto quando si arriva ad un livello di identificazione totale con un personaggio che è talmente famoso da essere prima di tutto un personal brand. Il rischio che si corre in questi casi è molto alto, ancor più a livello di reputazione corporate. Associare totalmente la propria immagine, seppur solida, ad un testimonial, ambassador o talent che sia, può mettere seriamente in discussione la reputazione di un’azienda, non solo di un brand o di una linea di prodotti, e una scelta vincente potrebbe portare invece, uno svantaggio competitivo.

Il recente caso di Adidas e della fine della partnership con il rapper e stilista americano Kanye West è proprio un esempio lampante di cosa accade quando si va troppo oltre nel processo di identificazione con un personaggio. Certamente la situazione dell’azienda era complicata da tempo per numerose ragioni e la fine della collaborazione decennale con Ye, non ha aiutato, come ha dimostrato la grande risonanza mediatica del caso nonché il crollo in borsa (-13%).

Dunque, se è vero citando l’immortale Coco Chanel che “una moda che non raggiunge le strade non è moda”, è altrettanto vero che per un’azienda rimanere fedele a sé stessa, nonostante le “contaminazioni” dall’esterno, resta la condizione essenziale per non creare un danno alla propria reputazione corporate che va preservata. La vera sfida di oggi, non solo per le piccole realtà ma anche per i colossi multinazionali, è essere in grado di mantenere un equilibrio costante tra le scelte strategiche di business, l’ambizione di raggiungere con la propria attività di marketing communications l’audience Gen Z e/o addirittura la generazione Alpha e la capacità di preservare intatta la propria identità corporate, mettendosi al riparo dal rischio di “vendere l’anima al diavolo”.

 

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