Kevin Roberts di Saatchi & Saatchi chiude con la peggiore delle campagne. Uno schiaffo alle donne in carriera!

Kevin Roberts alla fine si è dimesso dalla carica di Presidente di Saatchi & Saatchi, a seguito di un’intervista rilasciata a Business Insider nella quale dichiarava che il problema dell’assenza delle donne nei CEO delle agenzie di advertising fosse un finto problema. Secondo Roberts, infatti, la presenza esigua del gentil sesso nei board dirigenziali sarebbe legata a una scelta personale, quella di dare priorità alla famiglia piuttosto che al lavoro. Apriti cielo. L’intervista ha scatenato una rivolta mediatica di ampie proporzioni ed è stata denunciata dal Financial Times: dal 27 luglio ad oggi i tweet con l’hashtag #KevinRoberts o con la presenza del nome e cognome dell’ormai ex Presidente di Saatchi & Saatchi al loro interno sono stati visualizzati da 3.105.458 persone, un numero di volte pari a 4.362.443. Dopo l’analisi di un campione di 627 post provenienti da 520 utenti diversi nell’arco degli ultimi 9 giorni, emerge che gli hashtag più utilizzati riguardano l’uguaglianza di genere: #genderequality, #genderdiversity, #sexism; ci sono poi anche quelli più comuni, come #leadership e #women.  Commenti illustri sono arrivati da Cindy Gallop (il suo TEDTalk “Make Love Not Porn” è stato uno dei più discussi alla conferenza TED del 2009) e da Jonathan Mildenhall, Chief Marketing Officer di Airbnb: tweet di sdegno attraverso i quali i due, insieme a tanti altri, si chiedono come sia possibile che Roberts abbia fatto determinate dichiarazioni. C’è da dire che lo stesso Roberts nella lettera di dimissioni si è scusato per aver fatto determinati commenti e per aver recato imbarazzo alla società che dirigeva. Scuse dovute non c’e ombra di dubbio. Quel che è certo è che il tema della parità dei sessi, soprattutto nel mondo della comunicazione, è un topic molto delicato e sentito tanto che al Festival della Creatività di Cannes hanno dedicato un apposito premio, i Glass Lions, e parlarne apertamente in questi termini non sembra essere stata una scelta lungimirante. E’ vero, Kevin Roberts davanti aveva comunque la pensione ma così oltre ad aver dissolto in 5 minuti di follia  la reputazione costruita in anni di onorata carriera, ha rischiato di minare gravemente quella di Publicis, per giunta quotata in borsa.

 

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15 agosto 2016

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Io Donna ne fa una questione di shorts.. noi di reputazione

Tutto ha avuto inizio quando Io Donna, settimanale del Corriere della Sera, ha pubblicato una foto sul suo sito web con il figlio di David Beckham, Brooklyn, e la fidanzata Chloe Moretz, mano nella mano. A corollario della foto appariva la didascalia  “L’attrice non si separa mai dagli shorts. Peccato non sia così magra da poterli indossare con disinvoltura”. Quello che voleva essere un commento ironico ha invece innescato un vespaio sui social, con celebrità e gente più o meno nota pronta a difendere i diritti delle donne contro quello che è a tutti gli effetti un autogol clamoroso. Un fenomeno che ha avuto sfogo trasversalmente su tutti i social più importanti, con cinguettii e post al veleno che hanno riscosso un clamore mediatico notevole: tra gli altri hanno espresso il loro disappunto l’account ufficiale di Miss Italia, la giornalista de Il Fatto Elisa D’Ospina (il suo post su Instagram è stato il più apprezzato con 1.101 like), la co-conduttrice di TvTalk Cinzia Bancone (322 retweet e 532 like il suo post su Twitter), la fashion blogger Martina Calabresi e Selvaggia Lucarelli, che ha raccolto più di 10mila like e 849 commenti su Facebook: tutte unite al grido di #IODONNACONGLISHORTS, #bodyshaming e #curvy. Un attacco al quale IoDonna ha reagito goffamente, prima cambiando la didascalia in “L’attrice non si separa mai neppure dagli shorts. Esibiti con disinvoltura ovunque. Con troppa disinvoltura”, poi giustificandosi con un post ufficiale su Facebook nel quale si sottolineava che il commento voleva essere un giudizio solo sul look della Moretz. Una strategia di recovery che ci ha lasciato un po’ interdetti, considerato soprattutto che non sono ancora arrivate delle scuse, ma solo un tentativo di giustificare le affermazioni precedenti.  Dal punto di vista della reputazione il settimanale che è da sempre dalla parte delle donne, avrebbe avuto tutto da guadagnare se avesse utilizzato una strategia differente proprio per questo suo posizionamento distintivo. Al contrario la testata Vanity Fair, incappata nello stesso problema ha prontamente reagito con il direttore Luca Dini che dopo aver corretto prontamente l’errore, si e’ scusato per la cattiva gestione della “notizia”. Stesso problema, due modi di agire totalmente diversi.

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10 agosto 2016

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#NiUnaMenos, Fiat Argentina e il manuale di guida sessista

“Se la gonna di una signora è troppo corta, consigliamo che viaggi sul sedile posteriore, per mantenere alta la nostra concentrazione”. Non si tratta di una battuta, ma di una delle frasi presenti nel “Manuale del buon uso” per guidatori di Fiat Argentina, una campagna adv lanciata su Twitter e ideata da Leo Burnett Argentina che metteva in palio una Fiat 500 e una Bigbox, premiata addirittura dal Circolo dei creativi argentini. Il testo, pieno di riferimenti sessisti e misogini, è stato soggetto a pesanti critiche da parte di consumatori, associazioni femministe e mondo del giornalismo.

Una protesta che al grido di #NiUnaMenos, #ComunicacionNoSexista e #SiSePuede ha costretto la divisione della società per azioni italiana a ritirarla dal mercato e a scusarsi prontamente. Tutto è iniziato da Agustina Altman, una donna che una volta scoperto il manuale lo ha pubblicato su Facebook, facendolo diventare virale (quasi 2mila condivisioni).  Tutto a distanza di pochi giorni dalla campagna di Guess per il Denim Day, nata per dire no alla violenza sulle donne.

Due esempi che esaltano rispettivamente una comunicazione ricca di significato e una deprecabile e lesiva della reputazione di un brand. Resta un mistero il fatto che Fiat abbia approvato una campagna del genere e che quest’ultima  sia stata premiata da professionisti. Un premio dovrebbe valorizzare un esempio virtuoso ed oggi durante i postumi dello scandalo i primi a subire un calo del proprio profilo reputazionale saranno certamente quegli addetti ai lavori che sono stati i primi a non impegnarsi nella scelta dei messaggi da trasmettere. E se chiedessimo loro di lavorare pro bono ad una campagna contro la pubblicità sessista tipo #womennotobjects?

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16 giugno 2016

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La reputazione di Johnson & Johnson si decide in tribunale?

La sentenza è stata emessa, di nuovo: Johnson & Johnson dovrà pagare 55 milioni di dollari a una donna americana che aveva accusato la società farmaceutica multinazionale di aver venduto prodotti a base di talco che causano tumore. È il secondo verdetto dopo la condanna a pagare 72 milioni alla famiglia di una donna deceduta per le stesse ragioni. Nonostante J&J sia decisa a far valere le proprie ragioni in appello, lo scenario che si appresta ad affrontare non è dei più rosei, per usare un eufemismo. Sebbene la società sostenga che le condanne contrastino con decenni di ricerche che certificano la sicurezza del talco e attui politiche di CSR nonché campagne di solidarietà convincenti (come il recente sostegno a UNICEF), ogni post pubblicato sui canali ufficiali social è diventato per i consumatori il pretesto per accusare J&J di utilizzare nei loro prodotti di punta ingredienti che fanno male alla salute. Non il migliore biglietto da visita per chi fa del mercato del care la propria fonte di guadagno e il principale strumento di customer retention. Certo è che quando il picco di engagement proviene in maniera reiterata da una crisi, il brand subisce un contraccolpo alla reputazione che siamo certi sarà gestito con grandissima attenzione. Stiamo parlando di una company quotata in borsa il cui titolo è al picco massimo del valore mai raggiunto negli ultimi 15 anni per cui Johnson & Johnson al momento potrebbe subire contraccolpi dal valore decisamente superiore alle condanne pecuniarie. Dal punto di vista della strategia di recovery cosa possiamo aspettarci da un brand così storicamente associato al concetto di famiglia?

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05 maggio 2016

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La reputazione di Carlsberg si scioglie come il malto

“La migliore danese che riuscirete a farvi stasera, probably.” È la frase che campeggia sul cartellone pubblicitario apparso a Milano e reclamizzato da Carlsberg. Partito come un modo per creare buzz e effetto wow intorno all’iniziativa, così come era successo in passato, questa volta l’esito non è stato quello sperato: il brand è stato infatti bombardato su Facebook da commenti che lamentano la gravità del messaggio trasmesso,  ben lontano dagli standard minimi di eleganza e buon gusto che una pubblicità, seppur ironica, richiederebbe. Si tratta di una caduta di stile di un certo peso sottolineata anche dalla delegata del sindaco per le pari opportunità Francesca Zajczyk, una di quelle che può incidere sulla reputazione di un marchio, con le ovvie conseguenze del caso dal punto di vista delle vendite anche perché, siamo in un segmento di consumo molto competitivo. La concorrenza è infatti agguerrita e i confronti con altri brand legati al settore delle bevande alcoliche (leggi Ceres vedi real time marketing) non si lasciano attendere. Quante cadute di stile sono consentite prima che un marchio esaurisca le possibilità di riprendersi? C’è un confine oltre il quale non è possibile tornare indietro e recuperare i punti persi nel reputometro personale dei consumatori? Se Carlsberg vuole scoprirlo, probabilmente è sulla buona strada.

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26 aprile 2016

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La lettera che chiude l’era Mayer in Yahoo!?

Ci risiamo. Starboard Value, la società di consulenza finanziaria newyorkese, ha inviato una lettera al CDA di Yahoo! chiedendo all’amministratore delegato Marissa Mayer di farsi da parte per favorire un cambio strutturale delle strategie adottate dal noto player internet. Tra le richieste la vendita o lo scorporo delle attività core, tra cui quelle del motore di ricerca, il servizio di posta e le news, ognuno con la rispettiva raccolta pubblicitaria. Il j’accuse nasce dal desiderio irragionevole dell’azienda di compiere acquisizioni di vaste proporzioni, a fronte di una gestione economica non irreprensibile: da quando la Mayer è al comando, infatti, ha speso 3 miliardi di dollari senza riuscire a dare un’identità precisa alla compagnia e ora sta programmando il taglio di almeno mille dipendenti. Non il migliore biglietto da visita per una paladina di gender, impegnata a testimoniare che la presenza delle donne alla guida di un colosso internazionale può essere un vantaggio competitivo e che è possibile farlo senza rinunciare alla famiglia e alla maternità. Insomma una lettera che, oltre a minare la reputazione dell’amministratore delegato di Yahoo! nonché il suo lauto compenso (42 milioni di dollari ndr), rischia di metterla in cattiva luce quale esempio di “donna vincente” che, fino ad ora, è stato un tratto distintivo della sua rappresentazione mediatica.

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18 gennaio 2016

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