Spot Pakkiano

Io gli credo. Io credo a Stefano Cigana, responsabile del marchio di moda “Pakkiano”. Così come credo anche a Carlo Tavecchio, candidato alla successione di Abete alla guida della FIGC. Perché oggi, sempre di più, sembra proprio che – per chi le pronuncia – le parole non contino, non pesino e, soprattutto, non significhino mai qualcosa di concreto, che sta nel mondo reale, ma che valgano sole per se stesse. Parole che quindi si possono ritrattare, smentire, negare senza problemi, dato che sono puro flatus vocis.
E magari si può anche attaccare chi protesta e s’indigna, con l’accusa di aver “gonfiato” le dichiarazioni altrui o di averle fraintese.  Signore, perdona loro perché non sanno quello che dicono.

Lo spot “Pakkiano” (nomen omen) ha catturato velocemente l’attenzione dei social network (mentre scrivo, ha raggiunto quasi 12.000 visualizzazioni in 5 giorni) e dei media (citato dal Fatto Quotidiano e Huffington Post, solo per ricordarne un paio dei più blasonati). Non voglio togliervi il piacere di vederlo, per cui evito di riassumerlo.

Ecco qua. E ora leggiamo che cosa dice Cigana, in una dichiarazione apparsa su Uomini & Donne della Comunicazione:“Abbiamo volutamente cercato di creare una scena dalle forti tinte drammatiche, per suscitare pathos in chi guarda questo spot per la prima volta. Vogliamo comunicare un messaggio chiaro: ossia la libertà di potersi vestire come si vuole, liberi da schemi”.
Insomma, da chi mette in vendita sul suo sito la maglietta con la scritta “TE SPAKKO EL KRANIO” a soli 39,90 euro e quella “5 SCHEI DE MONA” a 43 euro ci saremmo aspettati una risposta più spavalda e “irriverente”, non un paio di frasi in cui chi ha lanciato letteralmente il sasso sembra non aver commesso il fatto.
Anzi, qui di sassi ne sono stati lanciati tanti. Il capo dei lapidatori  porta in testa una kefiah (è un palestinese o semplicemente un filo-palestinese?); tempismo perfetto ai tempi di Gaza. Il tema della lapidazione (vera) delle donne purtroppo è un tema concreto e profondamente straziante.  In più, per finire, c’è anche un pizzico di sessismo con la ragazza bionda che esce fuori dal burqa, ballando vestita con una maglietta pakkiana: “Sono ancora vergine”. Un allineamento di pianeti di questo tipo non avveniva da almeno un secolo.

In fondo, però, più che dalla volgarità dello spot, si rimane colpiti dalla vuotezza delle parole che lo accompagnano, gratuite e inutili come quelle offensive di Tavecchio e di tanti altri “dichiaratori professionisti” del giorno d’oggi. “Come parla? Come parla? – ci verrebbe da dire insieme al Nanni Moretti di “Palombella rossa” – Le parole sono importanti!”.
E invece forse oggi non è più così: è cambiato il paradigma e le parole si sono staccate dal mondo. Nel momento in cui non c’è più un filtro tra la domanda di Facebook “A che cosa stai pensando?” e quello che scrivo un secondo dopo, nel momento in cui la dichiarazione più provocatoria e stupida riceve montagne di “like”, ma anche caterve di insulti da curva ultrà, vuol dire che qualcosa si è rotto e che le parole significano sempre meno: “kitsch”, “cheap” – diceva la giornalista che intervistava Moretti nel film, ripetendo formule vuote; “pathos” e “banane” – dicono Cigana e Tavecchio, senza capire che cosa stanno dicendo.
Perché tutto questo sia successo e quali ne siano le cause sarebbe vitale capirlo, ma servirebbero filosofi e sociologi di valore. Io certo non lo so, ma nel frattempo continuerò sicuramente a pensarci, mentre mi gratto la zucca e mangio con gusto una Musa acuminata. Pardon, una banana.

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