campagna greenpeace

Cosa spinge d’un tratto un’azienda a mettere a rischio un sistema di valori costruito con solidità e fedeltà nel tempo? Può bastare una partnership vantaggiosa sotto il profilo commerciale?

La lancetta del reputometro di Lego è in discesa da quando la leader dei giocattoli per bambini ha firmato un’operazione di co-marketing con Shell per attivare la produzione di 15 milioni di pezzi brandizzati con il noto logo a forma di conchiglia, in vendita nelle stazioni di servizio di tutto il mondo.

Manifestata attraverso gli 80.000 tweet della battaglia #blockshell,  l’accusa rivolta a un marchio che ha sempre comunicato con estrema coerenza l’attenzione all’ambiente e l’insegnamento ai bambini attraverso la creatività intelligente, è di essersi affiancata ad un colosso petrolifero che minaccia l’ecosistema dell’Artico. Nel video diffuso dall’NGO ambientalista , pubblicato sulla pagina Youtube dell’associazione e ad oggi visualizzato da oltre 5 milioni di utenti, non tutto è meraviglioso come intona la romantica canzoncina tratta da The Lego Movie:  il magico mondo di mattoncini viene sommerso da un mare di petrolio proveniente dalla fuga di un pozzo Shell, che inghiotte lentamente con sé l’incontaminata fantasia dell’infanzia e l’intero mosaico dell’immagine aziendale di Lego.

Un’idea dal forte impatto emotivo, che fuoriesce dalle tradizionali campagne provocatorie degli attivisti green fatte di blitz e slogan urlati nelle piazze, adottando la strategia sottile ed efficace dei social, e colpendo nel segno con un risultato che ribadisce la straordinaria potenza del mezzo: 700.000 firme raccolte per interrompere l’amorale accordo. Nel 2008 dentro l’occhio del ciclone di Greenpeace era finita anche Dove, con una video protesta dall’altrettanto scossone emozionale che accusava la marca di cosmesi di contribuire massicciamente alla distruzione della foresta pluviale dell’Indonesia per ricavare l’olio di palma. L’attacco si era poi concluso con un incontro tra le parti e l’impegno del brand figlio di Unilever a salvaguardare i territori interessati.

Lego finora ha dimostrato di non riuscire a gestire la situazione restando in silenzio ed intervenendo solo con una dichiarazione di Jorgen Vig Knudstorp, CEO del LEGO Group apparsa sul sito ufficiale e sulla pagina Facebook, che non equivale ad una reale presa in considerazione del problema: «Il Gruppo LEGO opera in modo responsabile e si sforza continuamente di “vivere” secondo il motto della società dal 1932: “Only the best is good enough”. Siamo determinati a lasciare un impatto positivo sulla società e sul pianeta che i nostri bambini erediteranno. Il nostro contributo è ispirare e far crescere i bambini grazie a esperienze di gioco creative in tutto il mondo. Un contratto di co-promotion come quello con Shell è uno dei tanti modi per portare i mattoncini LEGO® nelle mani di molti più bambini. Noi accogliamo positivamente e ci ispiriamo agli input che riceviamo dai fan, da figli, da genitori, da organizzazioni non governative e da altre parti. Hanno tutti grandi attese in merito al modo in cui operiamo.
La campagna Greenpeace è focalizzata sulle operazioni di Shell in una singola area del mondo. Crediamo fermamente che la questione debba essere discussa tra Shell e Greenpeace. Siamo rammaricati quando il marchio LEGO viene strumentalizzato in controversie tra altre organizzazioni. Ci aspettiamo che Shell agisca responsabilmente, intraprendendo le azioni appropriate al caso, sia che si trovi a rispondere a potenziali reclami, sia che non si trovi a dover affrontare una simile evenienza.  Vorrei chiarire che intendiamo continuare il contratto con Shell, in vigore dal 2011.>>.

Le eventuali responsabilità sulla vicenda sono scaricate al partner, a cui si decide comunque di confermare il sostegno nonostante la globale sommossa popolare.  In  una mossa che paradossalmente ha recato del green-washing a Shell e non all’azienda che invece ne era paladina, non si spiega come la scelta di apporre il proprio simbolo ad un’alleanza economica dovrebbe svincolare da tutto il resto. Non si capisce inoltre, perché chi ha fatto della “costruzione” il proprio marchio di fabbrica, stia decidendo di decostruire in fidelity.

John Mahony, CEO di  Inc, società di consulenza specializzata in gestione della reputazione internazionale, in un’intervista rilasciata a PR Week sostiene che le aziende prendono decisioni strategiche solo sulle battaglie che sono sicure di vincere. Potrebbe essere stato questo il caso di Lego, che certa di non potere dominare su Greenpeace e per non mostrarsi debole nei confronti degli stakeholder, ha preferito restare dietro le quinte.

E’ inevitabile che in ogni protesta si verifichino dal basso guerre tra le parti, ma è difficile per un lovemark ignorare il termometro rosso e non esporsi per difendere la fiducia dei propri consumatori. In quest’era si può ancora scegliere di non seguire il social business? No, secondo la pioggia di critiche e il sentiment negativo associato nel mese di luglio al nome di Shell su Twitter. Il giocattolo dunque potrebbe non valere la candela se la questione etica inciderà sui profitti più degli interessi economici in ballo sul contratto.

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