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L’improvviso collasso di uno dei principali istituti di credito della Silicon Valley ha spinto gli investitori tecnologici e le startup a fare di tutto per capire la propria esposizione finanziaria e l’impatto sulla loro capacità di operare, in un momento in cui molte aziende erano già in difficoltà a causa dei diffusi licenziamenti e del minore accesso al capitale. Una situazione che si sta verificando negli ultimi due anni in tutto il mondo, Italia compresa. Dopotutto, l’incertezza nel futuro è una fondamentale nel mondo delle startup, per dieci che ne falliscono, c’è quella fortunata azienda che si trasforma in unicorno. Ma non tutto dipende dagli investitori.

Nel caotico ma intrigante panorama delle startup italiane, un elemento cruciale che spesso determina il successo o il fallimento di un’azienda è la sua reputazione. Molte startup hanno iniziato con idee incredibili, ma si sono scontrate con sfide legate alla gestione della loro immagine e della fiducia del pubblico, soprattutto quando queste realtà erano guidate da persone tanto carismatiche da rubarne la scena. Sono molti i casi noti di startupper italiani che hanno imparato a proprie spese quanto sia importante costruire e preservare una solida reputazione aziendale, piuttosto che una personale. C’è chi, come Elon Musk, ha pensato più a costruire la propria immagine di innovatore e guru, usando la propria idea come strumento utile al personal branding, piuttosto che focalizzare la comunicazione sull’azienda in sé. Ma quando questa scelta è una mossa vincente? Quando invece, con la caduta della persona, cade anche il brand? Succede più spesso di quanto si pensi. Si tratta di un errore comune in fondo: la startup nasce da un’idea, e l’idea spesso nasce da una mente. È facilissimo dimenticare dove inizia la mente e nasce il business, ed è difficile per i media comunicare un’idea senza citarne il proprietario.

Un caso emblematico che illustra l’impatto cruciale della gestione della reputazione è quello di Mosaicoon, un’azienda con un’idea rivoluzionaria nel campo dell’educazione online. Mosaicoon ha fatto il suo ingresso nel panorama delle startup italiane con una visione audace: trasformare il modo in cui le persone accedono all’istruzione attraverso soluzioni innovative online. L’idea sembrava promettente, ma il percorso di Mosaicoon è stato complicato dalla mancanza di una solida strategia di gestione della reputazione. Una delle sfide principali affrontate dalla startup è stata la mancanza di trasparenza, operata in primo luogo dal giovane fondatore Ugo Parodi Giusino. “Ho investito sulla mia azienda e sulla mia terra, come isola in cui ritornare a fare impresa e attirare talenti da tutto il mondo” dichiarava nel 2010, e per una decina d’anni ha goduto di moltissima attenzione mediatica, la quale ha gestito egregiamente presentandosi a interviste, convegni, occasioni di networking. A 18 anni aveva un’idea, a 26 era un imprenditore affermato e riconosciuto a livello nazionale. A 30 anni ha smesso di rispondere alle domande che a migliaia ricadevano sulla sua scrivania. Niente interviste, nessuna risposta, ma molti i dubbi sull’improvvisa perdita di profitti. Gli investitori, fondamentali per il finanziamento e la crescita di qualsiasi startup, hanno avvertito un senso di incertezza dovuto alla mancanza di chiarezza nelle comunicazioni dell’azienda. La fiducia, elemento basilare nel mondo degli investimenti, è stata compromessa, minando le possibilità di successo. Si arriva così al 2018, in cui Mosaicoon annuncia la chiusura, quando in realtà molti parlano di fallimento. Un’unica intervista, e poche risposte, spesso copiate e incollate: i competitor sono troppi e molto più forti. Oggi Parodi Giusino è tornato a comunicare e a rispondere alle domande, in veste di investor e fondatore di Magnisi, uno spazio di coworking a Palermo, e utilizza il suo passato come punto di forza all’interno del suo curriculum. Quando qualcuno però chiede di Mosaicoon, ecco che il vecchio statement torna alla carica, senza ulteriori possibilità di approfondimento.

Kellify, fondata con l’obiettivo ambizioso di rivoluzionare il mondo degli investimenti attraverso l’intelligenza artificiale, ha rapidamente attirato l’attenzione grazie alla sua tecnologia di analisi delle immagini. La piattaforma prometteva di predire il valore futuro di un’immagine, aprendo nuove possibilità nel campo della valutazione degli asset visivi. Tuttavia, il percorso di Kellify è stato tutto tranne che lineare. Pur suscitando un forte interesse iniziale, l’azienda ha incontrato difficoltà nel garantirsi il sostegno finanziario necessario per consolidare e espandere la propria attività. La mancanza di investimenti significativi ha contribuito a mettere in luce la fragilità finanziaria dell’azienda. Ma perché non c’erano investimenti? La risposta è semplice, nessuno sapeva che cosa facesse davvero l’intelligenza artificiale di cui la startup si faceva forza. Dopo aver presentato istanza di insolvenza, Francesco Magagnini ha fatto perdere completamente le sue tracce. Nessun profilo social, nessun contatto. In questo caso il founder ha nascosto, dietro l’offerta della propria azienda, la storia di un curriculum inesistente. Nessuno è mai riuscito a verificare la veridicità delle sue competenze, la Sorbona di Parigi e Stanford non vedono, fra i registri degli alunni, il suo nome. Allo stesso modo, le sedi di New York e Seoul che Magagnini vantava, non sono mai esistite. Oggi il caso è ancora aperto, si stanno analizzando bilanci e documenti, e giorno dopo giorno vengono scoperte nuove inesattezze, nella speranza di poter dare in un futuro una risposta a tutti i dipendenti che si sono trovati senza lavoro senza alcun preavviso.

C’è chi però ha saputo cogliere l’importanza della reputazione aziendale tramite le proprie attività, e ha lavorato per costruire un brand solido. Una di queste persone è Simone Mancini, founder di Scalapay, innovativa piattaforma di pagamento a rate che ha saputo conquistare il cuore dei consumatori e il rispetto del settore. Uno degli elementi distintivi di Scalapay è stata la sua rapida adozione nel mercato italiano. Grazie a partnership strategiche con numerosi e-commerce, Scalapay ha ampliato la sua presenza, diventando una scelta popolare per i consumatori che cercavano flessibilità nei pagamenti. La storia di Scalapay è anche una testimonianza della capacità di innovare in un settore consolidato come quello dei pagamenti. Scalapay non si è limitata a offrire un servizio di pagamento a rate, ma ha ridefinito l’intera esperienza di acquisto online, ed è diventata in pochissimo tempo la classifica definizione all’italiana di un unicorno. Il fondatore di Scalapay ha dimostrato una visione chiara e la capacità di capitalizzare una crescente domanda di flessibilità finanziaria nel contesto degli acquisti online. La startup ha anche risposto prontamente alle esigenze dei commercianti, offrendo loro un sistema di pagamento che potesse incrementare le conversioni e migliorare l’esperienza di acquisto dei clienti. Pubblicità onnipresente, partecipazione agli eventi giusti, comunicazione chiara e dettagliata sui propri processi, in un mondo, come quello dei pagamenti, che è intrinsecamente complicato, sono una delle chiavi che hanno fatto sì che Mancini riuscisse a portare la sua azienda, non lui, al successo.

Lo stesso percorso è stato seguito da Alberto Dalmasso (e non solo lui) quando ha portato alla luce la visionaria idea di Satispay. Trasparenza, affidabilità e chiarezza nelle comunicazioni sono stati elementi fondamentali per guadagnare la fiducia degli utenti e degli investitori. Il muoversi al momento giusto, sapendo quando era tempo di comunicare e quando invece era meglio restare al proprio posto hanno fatto sì che Dalmasso si qualificasse come esempio lampante di leadership etica prima che economica. Le sfide affrontate dalla startup nel suo percorso di crescita si sono trasformate presto in opportunità per mostrare la propria capacità di navigare in qualsiasi tipo di acque, trasmettendo elevati standard di affidabilità.

La capacità di comunicare in maniera efficace la missione della propria azienda, e la dedizione all’innovazione, è il punto focale per cui persone come Mancini, Dalmasso e altri sono riusciti nella scalata al successo. La reputazione dell’azienda prima del personal branding, che ne diventa una naturale conseguenza, è ciò che ha reso facile per questi giovani l’emergere fra tante idee e progetti.

In conclusione, l’esperienza degli startupper italiani ci insegna che un’idea incredibile da sola non è sufficiente per costruire un brand di successo. La reputazione aziendale, basata sulla trasparenza, sulla fiducia e sulla gestione delle critiche, è un elemento cruciale per il lungo termine. Le startup che riescono a costruire e preservare una buona reputazione sono più propense a navigare con successo nell’incerto mondo imprenditoriale italiano. Una reputazione che deve sempre differenziarsi dal personal branding però, a meno che questo binomio non assuma un equilibrio vincente: sappiamo tutti quanto il fascino di una persona possa portare profitto, anche da un punto di vista economico, ma è compito dell’investor, ma anche del media, saper discernere quando un’idea non del tutto brillante si nasconde dietro a un carattere ammaliante. È ciò che sta succedendo in America dopotutto, e come ben si sa, mancano pochi mesi perché il fenomeno dilaghi negli altri Paesi. Che le startup siano di fronte a una crisi monetaria? Ci sono alcuni aspetti su cui, purtroppo, la reputazione non è abbastanza.

 

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21 dicembre 2023 in Prospettive Digital.

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